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Assegno di mantenimento – FINITI GLI STUDI OBBLIGO PER I FIGLI DI TROVARSI UN LAVORO
Finito il percorso di studi, sui figli incombe uno specifico obbligo di attivarsi per cercare un lavoro qualunque per rendersi autonomo, in attesa di un impiego più aderente alle proprie ispirazioni “non potendo egli, di converso, pretendere che a qualsiasi lavoro si adatti soltanto, in sua vece, il genitore”.
Questo è quanto ha affermato la Corte di Cassazione con la recente sentenza n. 17183/2020 in cui ha chiesto un’inversione di rotta per passare dal principio «del diritto a qualunque diritto» al concetto di dovere, dall’assistenzialismo all’autoresponsabilià, come impone l’evoluzione sociale (meno in Italia rispetto agli altri Paesi).
Trascorso un lasso di tempo sufficiente dopo il conseguimento di un titolo di studio, non potrà affermarsi il diritto del figlio ad essere mantenuto. “Tale regola” – dice la Corte – “vale in tutti i casi in cui il soggetto ritenga di aver concluso il proprio percorso formativo e non abbia, pertanto, l’intenzione di proseguire negli studi
[…]”.
Il diritto al mantenimento trova, dunque, un limite sulla base di un termine, desunto dalla durata ufficiale degli studi e dal tempo mediamente occorrente ad un giovane laureato per trovare un impiego.
L’obbligo di mantenimento non può viceversa essere correlato esclusivamente al mancato rinvenimento di un’occupazione del tutto coerente con il percorso di studi o di conseguimento di competenze professionali o tecniche prescelto.
La Corte di Cassazione con la pronuncia sopra richiamata ha rigettato il ricorso di un madre che contestava la scelta della Corte d’appello di revocare l’assegno, versato dall'ex marito, in favore del figlio (un trentenne professore di musica precario). I Giudici in tale occasione facevano notare che a trent'anni si dà per presunta, salvo l’esistenza di deficit, l’indipendenza economica.

L’ex coniuge divorziato ha diritto a percepire una quota del TFR? La risposta all'interrogativo è positiva: l'ex coniuge divorziato ha diritto a percepire una quota del TFR, ma solo a determinate condizioni. L’art. 12 – bis della l. 898/1970 dispone: «Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell'articolo 5, ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio"

Successione: in caso di conto cointestato, i coniugi sono debitori e creditori solidali La cointestazione di un conto corrente tra coniugi attribuisce agli stessi, ex art. 1854 c.c., la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto, sia nei confronti dei terzi che nei rapporti interni, e fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto; tale presunzione dà luogo ad una inversione dell’onere probatorio che può essere superata attraverso presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa. È quanto stabilito dalla Cassazione civile, sez. II, sentenza 23 febbraio 2021, n. 4838.

L'attualizzazione dell'assegno divorzile rispetto ai redditi guadagnati dagli ex coniugi Il giudice di merito investito della domanda di accertamento dell'assegno divorzile deve esaminare quale sia la posizione economica complessiva del coniuge nei cui confronti l'assegno sia richiesto, per verificare se sia tale da consentire (nel bilanciamento dei rispettivi interessi), attraverso la corresponsione di un assegno divorzile, di conservare ad entrambi i coniugi il pregresso tenore di vita, senza intaccare il loro patrimonio, anch'esso, di quel tenore. In tal senso si è espressa la Cassazione civile, sez. I, ordinanza 9 dicembre 2021, n. 39174.

Sì alla revoca dell’assegno di mantenimento al figlio maggiorenne che non studia né lavora Secondo il principio di autoresponsabilità, il figlio maggiorenne non deve abusare del diritto di essere mantenuto dal genitore oltre ragionevoli limiti di tempo o di misura, perché l’obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione e, nella valutazione degli indici di rilevanza, la sussistenza dei requisiti per il mantenimento va ponderata con rigore crescente con il crescere dell’età del figlio. In tal senso si è espressa la Cassazione civile, sez. I, sentenza 8 novembre 2021, n. 32406.

Una stabile convivenza non esclude automaticamente il diritto all'assegno divorzile dell'ex coniuge economicamente più debole Con la sentenza n. 32198, pubblicata in data 5 novembre 2021, le Sezioni Unite della Corte si sono espresse intervenendo sulla sorte e definizione dell’assegno di divorzio in favore del coniuge economicamente più debole. L'instaurazione da parte dell'ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica ed integrale del diritto all'assegno. Qualora sia giudizialmente accertata l'instaurazione di una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l'ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche all'attualità di mezzi adeguati o impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, mantiene il diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio a carico dell'ex coniuge, in funzione esclusivamente compensativa. A tal fine, il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare; della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescite professionale in costanza di matrimonio; dell'apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell'ex coniuge.

Lavoratore cade rientrando in ufficio dopo la pausa caffè: escluso l'indennizzo per infortunio sul lavoro Quando l'infortunio si verifica al di fuori, dal punto di vista spazio-temporale, della materiale attività di lavoro e delle vere e proprie prestazioni lavorative (si verifica, cioè, anteriormente o successivamente a queste, o durante una "pausa"), la ravvisabilità della "occasione di lavoro" è rigorosamente condizionata alla esistenza di circostanze che non ne facciano venir meno la riconducibilità eziologica al lavoro e viceversa la facciano rientrare nell'ambito dell'attività lavorativa o di tutto ciò che ad essa è connesso o accessorio in virtù di un collegamento non del tutto marginale. E' da escludere la indennizzabilità dell'infortunio subito dalla lavoratrice durante la pausa al di fuori dell'ufficio giudiziario ove prestava la propria attività e lungo il percorso seguito per andare al bar a prendere un caffè, posto che la lavoratrice, allontanandosi dall'ufficio per raggiungere un vicino pubblico esercizio, si è volontariamente esposta ad un rischio non necessariamente connesso all'attività lavorativa per il soddisfacimento di un bisogno certamente procrastinabile e non impellente, interrompendo così la necessaria connessione causale tra attività lavorativa ed incidente; del tutto irrilevante è la circostanza della tolleranza espressa dal soggetto datore di lavoro in ordine a tali consuetudini dei dipendenti, non potendo una mera prassi, o, comunque, una qualsiasi forma di accordo tra le parti del rapporto di lavoro, allargare l'area oggettiva di operatività della nozione di occasione di lavoro. La ha stabilito Cassazione civile sez. lav., 08/11/2021, n.32473.

Sì all’assegno di mantenimento al figlio maggiorenne che svolge lavoretti in nero Il figlio maggiorenne vanta il diritto al mantenimento a carico dei genitori solo se, concluso il percorso formativo scolastico, comprovi, con onere probatorio a proprio carico, di essersi adoperato per rendersi autonomo in senso economico, impegnandosi in modo attivo per reperire un’occupazione sulla base delle opportunità offerte dal mercato del lavoro, ed anche ridimensionando le proprie aspirazioni. La cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiori di età non autosufficienti deve essere incentrata su un accertamento che abbia riguardo all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa, ed alla complessiva condotta personale tenuta al raggiungimento della maggiore età da parte del giovane. In tal senso si è pronunciata la Cassazione civile, sez. I, sentenza 13 ottobre 2021, n. 27904.

Blocco degli sfratti e sospensione dei processi esecutivi su abitazioni principali La Corte Costituzione ha dichiarato incostituzionale, siccome immotivatamente ed eccessivamente compressiva del diritto all’azione giudiziale, la sospensione generalizzata di tutti i processi esecutivi aventi ad oggetto l’abitazione principale del debitore esecutato. La Corte ha sancito dunque l'incostituzionalità della seconda proroga del blocco degli sfratti stabilendo che sacrificio richiesto ai creditori deve essere ridimensionato, mediante introduzione di adeguati criteri selettivi (ulteriori rispetto a quello cronologico utilizzato sinora), rispetto all’esigenza di proteggere il diritto alla casa dei debitori. La sentenza n. 128/2021 emessa dalla Corte Costituzionale il 22 giugno 2021 ha censurato come costituzionalmente illegittimo l’art. 54-ter del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito dalla legge 24 aprile 2020, n. 27 (come novellato dall’art. 13, 14° comma, del D.L. 31 dicembre 2020, n. 183, convertito dalla Legge 26 febbraio 2021, n. 21), nella parte in cui ha prorogato oltre il 31 dicembre 2020 la sospensione delle procedure esecutive aventi ad oggetto gli immobili adibiti ad abitazione principale del debitore e della sua famiglia . La Corte Costituzionale ha dunque evidenziato come non proporzionato il bilanciamento tra tutela giurisdizionale del creditore e i diritti del debitore nelle procedure esecutive relative all’abitazione principale di quest’ultimo. Nel confermare la natura sociale del diritto all’abitazione, la Corte ha ribadito la sua richiesta al legislatore di adottare “misure idoonee” per riequilibrare le tutele ai creditori con l’esigenza di proteggere i debitori.

Contratti di locazione ad uso transitorio: benefici e rischi Per meglio rispondere alla crescente domanda di alloggio emersa in connessione con la pandemia da Covid-19, si ricorre sempre più frequentemente al contratto di locazione di natura transitoria non solo di breve periodo, ma anche quelle di medio termine. Quasi tutte le piattaforme di intermediazione turistica e immobiliare si sono pertanto ormai adoperate per offrire immobili fruibili anche con queste tipologie di accordi locativi c.d. medium term . Occorre però ben tenere a mente che in Italia non è possibile liberamente disciplinare gli accordi locatizi; infatti, in deroga al principio di autonomia privata delle parti, la L. 431/98 prevede alcune disposizioni inderogabili da cui le parti contrattuali non possono discostarsi, pena l’automatica sostituzione delle disposizioni pattizie con quelle imperative. Dunque, in relazione alla durata della locazione, questa disciplina prevede che possano essere validamente conclusi contrati di locazione di durata inferiore ai 18 mesi solo se sussistono comprovate esigenze transitorie dei proprietari o dei conduttori che devono necessariamente essere indicate nello specifico e allegate mediante la produzione della documentazione comprovante l’esigenza di transitorietà. Fondamentale dunque è l’esigenza di transitorietà. L’inadempimento delle modalità descritte comporta la riconduzione alla durata prevista per i contratti di locazione ordinaria (art. 2 della Legge 431/1998).

Non occasionale non significa abituale – Ampliata l’area di non punibilità La Corte di Cassazione penale sez. V, con sentenza n. 15483 del 23 aprile 2021 ha ampliato l’area di non punibilità stabilendo che “non occasionale” è concetto ben differente da “abituale”. Il comportamento è abituale nel caso in cui l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità (art. 131 – bis co 3 c.p.). L’abitualità non è dunque sinonimo di non occasionalità. In occasione della citata pronuncia, la Corte di Cassazione, annullando la sentenza dei giudici di merito, ha evidenziato infatti come l’art. 131- bis c.p., nell’indicare le condizioni preclusive al riconoscimento della clausola di non punibilità del fatto ex art. 131- bis c.p. richiami la connotazione «non abitualità» della condotta contestata, concetto diverso rispetto a quello di occasionalità, con conseguente più ampia estensione dell'area della non punibilità.